TANINA CUCCIA  

à La Maison des Arts

  Tunisi

 
        Home Tanina Cuccia a Tunisi
 


Con il patrocinio Dell'Istituto Italiano di Cultura e Il Ministero della Cultura Tunisino

       

 

 

Le opere in

mostra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A CURA DI Mediservices di Mila Lauretta

consulenza artistica di Nicolò D'Alessandro

 

 

La mostra apre la IX edizione di "Saveurs et Savoirs du Sud, rendez-vous avec la sicile", L'unica manifestazione che annualmente celebra la nostra isola a Tunisi.

Dal 3 al 20 aprile
2014

Maison des Arts

I porte du Belvédère

Tunisi


 


Sui frammenti di icone di Tanina Cuccia
di Nicolò D’Alessandro
Tra le più note comunità storiche italo albanesi arbëreshë, (arbereschi), insediatesi in Sicilia più di cinquecento anni fa nel territorio palermitano ci sono Piana degli Albanesi, Hora e Arbëreshëvet; la vicina Contessa Entellina, Kundisa; Santa Cristina Gela, Sëndahstina; Mezzojuso, Palazzo Adriano (Palermo). Non ultime nel territorio catanese le comunità di Biancavilla e di San Michele di Ganzeria.
A Piana degli Albanesi assieme al pittore Pippo Bonanno, la moglie italo albanese di Santa Cristina Gela e Francesco Carbone visitai, alla metà degli anni ottanta, la rassegna d'arte varia Horartistike, degli artisti locali con in mostra lavori di iconografia, mosaico, pittura, scultura, grafica, fotografia e ricamo. In quella occasione conobbi le impeccabili “icone su tavola” di Tanina Cuccia assieme a quelle di Papàs Marku Sirchia, Zef Barone, Spiridione Marino e Vita Masi. Nell’Oriente Cristiano l’icona riveste un particolare valore poiché mostra il culto e la religiosità della liturgia ortodossa. ?Si relaziona al divino non per rappresentare il sacro, ma per collegare misticamente il divino all’umano.
L’Eparchia di Piana degli Albanesi, unicum in Sicilia, attraverso la formazione degli iconografi contemporanei ha riproposto o meglio rinnovato, negli ultimi trent’anni, la tradizione delle icone che correva il rischio di scomparire.
“La prima volta che ho ammirato un’icona - scrive Tanina Cuccia - è stato nel 1979 quando, nel laboratorio di restauro dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, ho avuto l’opportunità unica di seguire i lavori del prof. Placido Scandurra sulle antiche icone dell’iconostasi di S. Nicola. Lì ho ammirato le tavole tarlate, spaccate e bruciate, l’argento meccato, i palinsesti, i tasselli di pulitura”.
Proprio in questo periodo di rinascita della cultura iconografica, nasce l’artista che con sicurezza, dopo un lungo periodo di riflessione e di maturata ricerca pittorica, affermerà: “le mie opere non sono più contemplative di verità ma espressione del dubbio e della coscienza della decadenza, non so se siano constatazione della perdita del sacro o tentativo di recupero di esso”. Sono un’arbëreshe, ovvero una italo-albanese appartenente ad una comunità minoritaria albanofona e di rito bizantino, insediatasi alla fine del XV secolo in Sicilia. Le mie opere sono cariche di riferimenti bizantini, i soggetti sono legati al mondo dell’icona, ad un mondo lontano popolato da santi guerrieri e creature angeliche che si invera tramite un meticoloso lavoro pittorico che recupera antiche tecniche come la tempera all’uovo o l’affresco ed allo stesso tempo raccontano attraverso i tagli, le crepe, gli strappi, i palinsesti e i forti contrasti materici, una realtà soggetta alla disgregazione della materia ed ai suoi incontrollabili mutamenti. Per questo non si può dire che io oggi dipinga icone”.
Per avvicinarci meglio al lavoro dell’artista credo possa essere utile ricordare alcuni elementi che costituiscono le caratteristiche basilari di tutte le icone. Nelle pitture su tavola, non c’è ombra o chiaroscuro, poiché la luce, in quanto luce naturale che non ha alcun valore, riflette soltanto i colori terreni. Il fondo a foglia dorata, le linee, le sottolineature d’oro rappresentano invece la luce sovrannaturale, la luce di Dio. Questo principio applicato tradizionalmente nell’iconografia, dipende anche da un insegnamento ortodosso, l’esicasmo, pratica ascetica alla ricerca della pace interiore, in comunione con Dio, che si manifesta attraverso l’energia divina sotto forma di luce, che non è quella naturale.
La prospettiva è ribaltata, le linee di fuga sono dirette in senso inverso rispetto all’osservatore, per restituire l’impressione che i personaggi rappresentati gli vengano incontro. Le figure non sono mai dipinte di profilo se non per indicare i peccatori e non esiste la tridimensionalità. Lo spazio è soltanto spirituale ed è affidato all’intensità degli sguardi. L’”iconografo” prende le mosse principalmente dal volto che deve indicare interiorità e purezza. Gli occhi sono molto grandi, fissano malinconicamente l’osservatore. La fronte è spaziosa, il naso allungato, la bocca piccola, le labbra sono sottili, il mento è sfuggente, il collo ben saldo. Un elemento importante è la simmetria, un centro ideale ove tutto converge. Altra caratteristica basilare è la proporzione delle figure e degli oggetti rappresentati, la cui grandezza manifesta il valore delle persone o delle cose. La rappresentazione delle figure non è di tipo naturalistico, ma simbolico. Ed il corpo, disegnato con segni leggeri, è sottile, la testa è piccola, i piedi sono minuscoli. La sua ieratica immobilità, la stilizzazione e i paesaggi spesso appena accennati, sottolineano di contro una complessa articolazione dei significati veicolati dall’icona e della sua simbologia teologica. Nell’Oriente Cristiano l’icona riveste un particolare valore poiché mostra il culto e la religiosità della liturgia ortodossa. ?Si relaziona al divino non per rappresentare il sacro, ma per collegare misticamente il divino all’umano.

Faccio un passo indietro. Dopo oltre cinquant’anni dalla Mostra di affreschi staccati al Forte Belvedere di Firenze, nel 1957, di Roberto Longhi che per primo avvertì la necessità di raccontare la secolare pratica del distacco delle pitture murali, è tutt’ora in corso, al ?MAR Museo d’Arte della Città di Ravenna, una straordinaria mostra L’incanto dell’affresco. Capolavori strappati da Pompei a Giotto da Correggio a Tiepolo (16 febbraio-15 giugno 2014). Una straordinaria raccolta di affreschi recuperati e trasferiti su supporti mobili dai masselli cinquecenteschi, agli strappi e trasporti ottocenteschi sino alle sinopie staccate nel Novecento. Sin dai tempi di Vitruvio e di Plinio risalgono le prime operazioni di distacco, con la rimozione delle opere insieme a tutto l'intonaco e il muro che le ospitava. Il cosiddetto "massello", che favoriva il trasporto da un luogo ad un altro di dipinti altrimenti inamovibili, favorendo altresì la conservazione di porzioni di affreschi destinati ad essere perduti per sempre. In seguito sostituito, dalla più pratica tecnica dello strappo, che con uno speciale collante permetteva di trasportare gli affreschi su di una tela.
Avviata la cosiddetta "stagione estrattista degli stacchi" e della "caccia alle sinopie", è stato possibile salvare anche i disegni preparatori che i maestri tre-quattrocenteschi avevano lasciato a modo di traccia sotto gli intonaci.
Queste brevi considerazioni, scaturite da una coincidenza temporale di una mostra di affreschi strappi a Ravenna che si sta svolgendo proprio in questi mesi, mi permettono di riflettere sul significato diametralmente opposto che la mostra di Tanina Cuccia esprime. La costruzione su “supporti mobili” degli affreschi “strappati” viaggia su altri imprevedibili territori concettuali molto affascinanti.
L’impatto immediato con le opere recenti di Tanina Cuccia, esposte in questa occasione tunisina, è di ritrovarsi di fronte ad una esposizione di frammenti di opere del passato. Strappate con violenza dalle loro sedi abituali, staccate dalle volte di chiese dimenticate e sconsacrate, dalle pareti di cappelle che li accoglievano da secoli per essere trasportati in luoghi più sicuri. Considerato il numero dei frammenti, oltre l’ipotizzata volontà conservativa, emergono allusive anche le presunte motivazioni collezionistiche della nostra ordinatrice.
L’impaginazione appare come una documentazione repertoriale del recupero di frammenti di una iconografia irripetibile ed incompleta della cultura bizantina. Appare il tentativo di restituire alla memoria affreschi perduti per sempre. Sono leggibili nei frammenti gli arcangeli guerrieri, gli angeli decaduti, le annunciazioni, le vergini, i santi guerrieri, i cavalli bardati, frammenti dell’Apocalisse ed altro ancora. Ed apparirebbe, secondo la sottile intenzione dell’autrice che, nella furia del recupero o del furto, il caso volesse che di queste mutilazioni giungessero sino a noi soltanto i volti o alcuni dettagli, (frammenti di cavalli, ali di angeli, tessuti accennati, mani benedicenti, teorie di volti) fortemente indicativi di strutture pittoriche complesse. Ma il sospetto che qualcosa non vada per il giusto verso è il fascino di questa esposizione. Il fatto è che i dettagli sono troppo credibili per essere veri. Ecco. L’ambiguità che si determina, ad una più attenta lettura dei “frammenti”, sostiene il gioco perverso del far credere autentico un lavoro intenzionalmente costruito ad hoc, sulla base di una solida esperienza iconografica e di una ancora più solida capacità tecnica. Tra il vero e il verosimile è giocato l’intervento iconografico. “L'opera, annota l’artista puntualmente, perde dunque la sua funzione di oggetto legato al culto o alla denuncia di pratiche non condivise o deridibili per diventare opera a se stante, opera d'arte”. Ad una attenta analisi sulla “pittura” ci si accorge che le “regole” non sono volutamente rispettate, gli sguardi non sono malinconicamente rivolti verso la spettatore come vuole la tradizione, ma si muovono spesso in altre direzioni. Ed il colore non è piatto, esistono gli abili chiaroscuri e le stesure coloristiche dichiaratamente di gusto pittorico a dichiarare le intenzioni del fare pittura. Emergono toni e tonalità, campiture di colori caldi assieme a foglie oro che non devono, in questo caso, sottolineare la presenza di luci sovrannaturali, ma il sapore terreno della sua brillantezza materiale. Ci troviamo pertanto di fronte non a “frammenti di icone” ma a tavole sapientemente dipinte, insomma, sostenute spesso da impasti terrosi e improvvisi segni grassi e corposi di pastelli a olio. Le tracce e gli indizi sapientemente scelti e disseminati nei “finti frammenti”, tra l’altro inglobati ad hoc su supporti plastici, costituiscono la sfida dialettica che l’artista italo albanese provoca consapevolmente. Appare evidente che la sua ricerca muove dal sacro e che, nell’apparente dissacrazione, nello stravolgimento dei rigidi canoni espressivi dell’iconografia fondata sul misticismo bizantino, ci sia un’implicita denuncia della perdita del sacro. Problema questo quanto mai attuale nella società contemporanea che da molto tempo ha stravolto se non perduto il senso profondo del sacro. Basterebbe soltanto questo aspetto per restituire alla scelta di Tanina Cuccia il merito di una pittura colta e in linea con le problematiche dell’arte di ricerca.

Palermo, febbraio 2014